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Intervista a Paolo Brunelli
L’avanguardia del gelato e la contaminazione creativa tra cucina, pasticceria, enologia e gelato. In due parole Paolo Brunelli.
RL: Il tuo nome oltre al gelato è spesso abbinato al mondo del cioccolato. Quali sono le differenze nella degustazione tra una barretta di cioccolato ed un gelato al cioccolato?
PB: Nel mondo del cioccolato c’è una storicità per quanto riguarda le tecniche di assaggio, sono infatti diversi anni che si studia la sua degustazione. L’assaggio di una tavoletta è più semplice rispetto a quello del gelato, principalmente per una questione di temperatura. La temperatura del gelato infatti anestetizza il palato e gli organi gustativi.
Un’altra differenza importante è che, mentre il cioccolato è un alimento derivato dal frutto della fava di cacao, il gelato ha una complessità incredibile data dai molteplici ingredienti che ci mettiamo dentro. Il gelato può essere dolce, salato, può essere acido, insomma è sicuramente più complessa la sua riconoscibilità.
Il gelato è da considerare a tutti gli effetti un piatto composito come quello di uno chef. È vero che una tavoletta di cioccolato può essere arricchita da frutta secca e da altri ingredienti, ma rimane comunque più semplice la sua degustazione.
RL: Quale dev’essere l’approccio e le differenze quando si assaggia un gelato al cioccolato o una tavoletta, secondo te?
PB: Innanzi tutto occorre che anche noi ci svincoliamo dal lato strutturale del prodotto, che pare oggi la faccia un po’ da padrone nell’assaggio di un gelato. Se ci fai caso sempre più spesso si dà un’alta votazione al gelato se è cremoso, poco dolce e non si va oltre alla ricerca di percezioni gusto-olfattive, come si fa per un grande vino o per un grande cioccolato. Sicuramente durante l’assaggio il palato ci viene incontro scaldando il gelato, basta aprire un po’ gli organi gusto-olfattivi per dischiudere un mondo che è simile a quello di qualsiasi alimento, che sia vino, cioccolato, un grande miele o il formaggio. Andando alla ricerca della struttura ottimale spesso si corre il rischio di non cogliere le sfumature che rappresentano la grandezza di un alimento come il gelato, quelle che i francesi chiamano nuances e che fanno emergere un prodotto rispetto ad un altro.
Questo succede anche nei vini, ti porto un esempio semplice: per anni, quando frequentavo i corsi da sommelier, c’era la diatriba sul vino perfetto. Ad esempio il più famoso vino da tavola in brick è considerato dai tecnici del settore, da un punto di vista strutturale, il vino perfetto, questo ci porta al controsenso che un Barolo “strutturalmente” non è perfetto, ma è innegabile che offre al palato delle sensazioni inarrivabili. Lo stesso parallelo lo possiamo fare con il gelato industriale che “strutturalmente” è considerabile il gelato perfetto, rispetto a quello artigianale.
RL: Questa corsa alla struttura perfetta del gelato mi fa pensare a tutti quei prodotti composti ricchi di strutturanti e alle basi pronte dell’industria, che vengono usati nella maggior parte delle gelaterie per offrire proprio quel risultato tecnico, che oggi il cliente trova e considera lo standard di riferimento.
PB: Viene considerato lo standard perché, per la maggior parte di clienti, il gelato è un prodotto di facile accesso, lo si prende perché si vuole qualcosa di dolce e di fresco. Non c’è l’approccio attento, come c’è nei confronti di un bicchiere di vino dove esiste già una cultura molto ben consolidata.
Da parte nostra, nei prossimi anni, dovremmo far capire che ci sono gelati e gelati. Andare nella stessa gelateria e trovare lo stesso prodotto standardizzato, sempre uguale in ogni stagione, un po’ mi impressiona. Le imperfezioni legate agli ingredienti come le fragole, che possono essere diverse da una settimana all’altra o alle nocciole che possono avere diverse tostature, rendono unico il prodotto. È doveroso per noi considerarle un fattore positivo ed è per questo che va fatta una buona comunicazione. Parlare ai clienti è impegnativo, ma arrivare alle persone che poi nel tempo ti chiedono un certo tipo di mandorla, ad esempio, è grande fonte di gratificazione. Bisogna anche togliersi dalla testa che il consumatore non capisce nulla, perché è sbagliatissimo: anche inconsapevolmente la degustazione attenta arriva a tutti. Il metodo di approccio è importante, come con le persone: se un prodotto ti dice qualcosa, ti fa venire voglia di ripetere l’esperienza e di approfondire la conoscenza, chiedere e capire. Se la persona (o il gelato) a cui ti stai approcciando non è sincera, non vai avanti e tagli il rapporto.
RL: Possiamo dire che il gelato è un prodotto che viene ancora consumato “distrattamente” dalla maggior parte delle persone?
PB: Esattamente, se ci fai caso lo si può paragonare al consumo di un caffè espresso, anche se in realtà in questo settore è in atto una sorta di rinascita. Per esempio se ti trovi in una grande città e ti viene voglia di un caffè, non è che ti fai tante menate su dove andare, entri nel primo bar e ti bevi un caffè. Presumibilmente con il gelato è la stessa cosa, tanto è vero che le gelaterie che hanno più riscontro economico e commerciale sono posizionate in punti strategici e, di solito, quelle gelaterie non si sforzano di fare un prodotto di nicchia o di alta qualità, perché intanto la gente c’è sempre. Se nella mia gelateria di Agugliano non avessi fatto un prodotto di nicchia, probabilmente oggi il locale non ci sarebbe più. Far venire la voglia alla gente di prendere la macchina e farsi dei chilometri per prendere un gelato da due euro, è stata una bella scommessa vinta.
RL: Nella tua formazione professionale ti sei anche occupato di cucina e di vino. Cos’hai portato all’interno del mondo del gelato da questi due mondi? (sempre da un punto di vista sensoriale).
PB: Il mondo della gelateria o della pasticceria è molto tecnico, perché c’è la necessità di avere una struttura adeguata che rimanga anche nel tempo. Quindi il tecnicismo, il saper fare le cose, il conoscere la merceologia degli ingredienti è fondamentale. Ma una volta fatto quello, occorre svincolarsi e ragionare un po’ da chef o da sommelier e quindi fare le nostre ricettazioni non soltanto considerando la struttura, ma iniziando a guardare le sfumature e iniziare a capire come funziona un piatto, come funziona un gelato: come ragionano anche le industrie con il concetto di “umami”.
RL: A proposito di umami raccontaci la tua esperienza di questo gusto all’interno del gelato.
PB: Ultimamente ho cambiato un po’ l’approccio verso il tema dell’umami dato che è un concetto difficile, anche nel nome. Se si parla di affettività o di sentimento, tutto diventa più comprensibile. L’umami è la riconoscibilità del quinto gusto, e questo ormai è appurato scientificamente da molti anni, ed è legato al riconoscimento del mondo dell’infanzia.
Quello che ho sviluppato io nel gelato un paio di anni fa, è quello che si fa in cucina inconsciamente da tantissimi anni; cioè di dare saporosità ad un piatto. È quello che le industrie stanno facendo da tanti anni: dare saporosità ad una merendina, piuttosto che a un gelato, piuttosto che a una pizza congelata. In gelateria siamo un po’ penalizzati in questo perché abitualmente ci muoviamo su ingredienti che non sono ricchi di questo “stimolatore di sentimenti”. Negli ultimi anni ho cambiato poco il mio bilanciamento tecnico, ma mi sono dedicato a mettere nel mio gelato più stimolatori possibili. Quindi il mio gelato spesso ha una punta di acidità, contrapposta ad una punta di saporosità o di sapidità. Questo è un meccanismo che le industrie conoscono molto bene. La mia illusione per il futuro è che i gelatieri scientemente e coscientemente facciano una ricettazione cercando di essere più stimolatori possibile, nei confronti del consumatore.
RL: All’interno dei gelati alle creme ci sono comunque ingredienti che contengono l’umami. Mi viene da pensare alle proteine del latte, ai formaggi…
PB: La stimolazione attraverso l’umami avviene principalmente o dopo la cottura o dopo l’invecchiamento. Ad esempio un Parmigiano di 12 mesi ha uno stimolatore di saporosità limitato rispetto ad un Parmigiano di 36 mesi. Utilizzare diverse tipologie di latte permette di differenziare molto, ad esempio un gelato al fiordilatte prodotto con un latte di fattoria, dove l’alimentazione delle mucche contiene fieno e mais (prodotti ricchi di stimolatori dell’umami), è in grado di accendere un meccanismo inconscio nelle persone, che lo vedi esprimersi negli occhi di chi assaggia. Non si tratta solo di un gusto diverso o migliore, ma proprio di una complessità di stimoli.
Riguardo alla mia esperienza di gelato con una forte stimolazione dell’umami, sono partito dal presupposto che mia madre nel preparare qualsiasi risotto ha sempre messo un’acciuga, ma lo faceva inconsciamente. Gli stessi romani, nella preparazione di salse, utilizzavano un pesce fermentato che arricchiva di umami le loro pietanze. Quindi non è una pratica solo orientale. In oriente è stato codificato da tempo perché la loro cucina è molto più lineare e basica, la nostra è più complessa ed è difficile identificarlo con chiarezza.
Nei miei esperimenti sono partito originariamente facendo un brodo e usando il glutammato contenuto nel dado. Ma il gusto del dado è molto invasivo e quindi ho cercato e individuato l’ingrediente naturale che avesse più glutammato in assoluto: il fungo shitaki. Questo fungo insieme alla farina di mais in infusione mi ha dato ottimi risultati, poiché non è caratterizzante ma aumenta la saporosità e rende più accattivante il gelato.
Ho anche lavorato su un vecchio vino cotto, che attualmente è entrato nella preparazione di alcune mie ricette, proprio perché riesce a donare una saporosità inedita alle mie preparazioni, senza essere facilmente identificabile.
RL: Nel gelato il cliente medio apprezza più la tradizione e ciò che conosce piuttosto che la sperimentazione. Tu come ti poni nei confronti ad esempio del gelato salato e gastronomico, che comunque si sta sempre più diffondendo?
PB: Personalmente non ho un grande interesse verso il gelato gastronomico tal quale, nel senso che ad esempio frullare un prosciutto e renderlo freddo essenzialmente per far parlare del gelatiere che lo ha proposto, non mi convince. Forse anche per il profondo rispetto che ho per certi ingredienti. Per me il concetto di contemporaneità parte da un gelato fortemente legato alla tradizione che può essere veicolo per far parlare di alimenti con un appeal popolare inferiore. Quindi fare un gelato al melone con un prosciutto vicino, forse lo troverei più adeguato. Premesso che io ho fatto il gelato con qualsiasi cosa, ma sono prodotti legati alla ristorazione più che da gelateria take away o da asporto. La sperimentazione è utile per aumentare la conoscenza, arricchirsi e ragionare e magari ottenere un po’ di visibilità.
RL: Tornando alla gelateria, come ci si deve porre oggi nei confronti del cliente? E’ necessario che venga formato all’assaggio consapevole?
PB: Bisognerebbe svincolare il concetto del gelato legato al fast food. Nel mio caso ho fatto un grande sforzo di comunicazione, pensa che da me non c’è neanche più scritto “gelateria artigianale”. Siamo attivati nell’era della comunicazione con la sincerità del prodotto. Il prodotto deve parlare e noi dobbiamo saperlo raccontare.